L’architettura egiziana è molto
lontana da noi ma nonostante ciò è conservata molto bene:
la bassissima umidità
(10%) ha reso possibile una migliore conservazione delle opere.
L’Egitto è estremamente legato al
fiume Nilo, che esondando rendeva fertile il terreno e veniva visto
come un
dio. Il territorio può essere diviso in due parti: alto Egitto
(zona del delta
del fiume) e basso Egitto (parte alta del corso del fiume). Il Nilo
inoltre
separava la cosiddetta “città dei vivi” dalla “città dei
morti”: il tramonto
del sole corrispondeva infatti alla fine della vita, mentre il suo
sorgere
all’inizio; pertanto la sponda orientale (dove sorgeva il sole) era la
prima
delle due città mentre quella occidentale (dove tramontava), la
seconda.
La principale caratteristica dei popoli che abitavano
queste zone è la capacità di costruire edifici
giganteschi utilizzando sistemi
costruttivi estremamente semplici. Veniva attribuita grande importanza
alle
tombe per le quali venivano utilizzati i materiali migliori; dentro di
esse
veniva inserito il corpo imbalsamato del defunto accompagnato da
suppellettili
che sarebbero servite per continuare la vita nell’aldilà.
In Egitto non era presente il
legno, eccetto quello della palma, che perciò non può
essere usato per le
costruzioni.
La forma delle piramidi è una
ripetizione molto diffusa legata ad una esperienza di elevata
stabilità; tali
imponenti edifici hanno il nucleo costituito da materiali scadenti che
diventano sempre più pregiati e resistenti mano a mano che si va
verso l’esterno:
il granito infatti, che troviamo nella parte esterna della piramide,
è una
pietra estremamente resistente e pesante. Il rapporto
costruttore-ambiente in
questo caso è particolarmente diretto e forte: queste immense
strutture
venivano edificate su collinette preesistenti su cui veniva posizionato
il
materiale trasportato utilizzando leve e rampe: questo popolo infatti
non
possedeva dei sistemi di sollevamento come le nostre moderne gru e si
basavano
su strumenti estremamente “semplici” con una quantità di
manodopera però non
indifferente.
Gli egiziani tendono a
riutilizzare le strutture che sono state utilizzate per la costruzione
dell’edificio: la rampa, che inizialmente serviva a collegare il Nilo
alla
tomba per il trasporto dei blocchi di pietra, diventa un luogo di
processione
per la vivificazione del dio/faraone collegando il santuario a valle
con quello
a monte. La rampa veniva quindi coperta con delle lastre di pietra
utilizzando
il sistema trilitico che la rendevano buia. Queste lastre di pietra
erano però
sottoposte a pressioni molto grandi e sarebbero potute cedere
facilmente,
perciò venivano posizionati più architravi con frapposte
delle camere d’aria
per risolvere problemi legati al cedimento degli architravi superiori.
Nella
parte superiore veniva infine costruito un falso arco che serviva a
scaricare
parte del peso del materiale sovrastante sui lati del cunicolo
riducendo
ulteriormente le possibilità di cedimento del materiale che
rischierebbe di
ostruire il passaggio del cunicolo/rampa.
Un altro sistema usato per
scaricare il peso ai lati era quello di posizionare ogni coppia
orizzontale di
mattoni mano a mano più vicini tra loro facendo in modo
però che il baricentro
cadesse sempre sul mattone sottostante.
Anche dentro le piramidi le rampe
utilizzate per la loro costruzione diventano parte delle stesse per cui
nel
momento della progettazione si è tenuto conto della loro
presenza poiché, pur
essendo piccole rispetto alle dimensioni dell’intera struttura,
rappresentano
comunque un punto debole.
Il sistema trilitico prima citato
a proposito delle rampe, consiste nel posizionamento di due elementi
verticali
(colonne che hanno forma cilindrica o pilastri che hanno forma a
parallelepipedo) sormontati da uno orizzontale, l’architrave. La pietra
è molto
resistente sotto pressione (pilastri e colonne) ma non altrettanto si
può dire
per gli architravi e tanto meno per la soletta: questa è la
principale ragione
per cui molti templi egiziani sono giunti a noi senza copertura
(diversa è la
ragione per i templi greci). Tuttavia i costruttori avevano cercato di
limitare
al massimo questo inconveniente cercando pietre molto resistenti
(granito).
Poiché gli egiziani richiedevano
elementi alti anche 20 o più metri (caso degli obelischi) si
presentava il
problema di riuscire ad avere cave di pietra da cui prelevare il
materiale
abbastanza vicine. Queste erano posizionate sempre vicino al corso del
Nilo
attraverso cui venivano trasportate.
Una volta localizzate queste zone
si presentava però il problema di estrarre il materiale; per
semplificare
questo passaggio venivano cercate rocce stratificate e, una volta
trovati i
piani di scorrimento (venature), si utilizzava il bulino per poter
permettere
l’inserimento di cunei di legno (quello presente nella zona, ovvero
della
palma) che una volta bagnati aumentavano molto il loro volume,
separando
definitivamente dalla roccia circostante la pietra che sarebbe servita.
Per la
lavorazione di questi elementi venivano utilizzati anche altri
strumenti come
ad esempio la sega.
Il trasporto su terraferma
richiedeva la massima riduzione possibile di attrito, e a tale scopo
veniva
usata l’argilla bagnata su cui scivolavano le slitte con i blocchi di
pietra.
Abbiamo già detto in precedenza
che gli egiziani, basandosi su sistemi costruttivi abbastanza semplici
e
potendo contare su una quantità di manodopera veramente
imponente, riuscivano a
sistemare blocchi di pietra dalle dimensioni gigantesche. Vediamo
meglio il
caso degli obelischi: questi potevano raggiungere dimensioni anche di
150 metri
cubi e pesi di oltre 400 tonnellate, implicando quindi, per il
posizionamento,
il lavoro contemporaneo di anche 9000 persone (una persona può
sollevare fino a
50 kg). Gli obelischi venivano fatti salire, con una slitta, su di una
rampa
che terminava nel punto in cui era presente la base di appoggio
dell’obelisco;
una volta giunto in cima, questo veniva posizionato verticalmente
facendo
scivolare la slitta su una rampa curva appositamente costruita (vedi
disegno).
Una volta fatto ciò si presentava il problema di togliere la
slitta, e a questo
scopo venivano messi precedentemente, tra la base dell’obelisco e la
slitta dei
sacchi di juta pieni di sabbia; una volta che l’obelisco era in
posizione
verticale, venivano posti altri sacchi di sabbia sotto la base e
venivano
bucati quelli sulla slitta in modo che questa potesse essere tolta.
Fatto ciò,
anche gli altri sacchi venivano bucati e la sabbia, una volta uscita,
faceva sì
che l’obelisco fosse esattamente sopra la sua base di appoggio (i
sacchi di juta
venivano tolti, una volta vuoti, attraverso un canalino presente sulla
base di
appoggio.
Procedimento analogo veniva
utilizzato per colonne e pilastri.
Per il posizionamento degli
architravi gli spazi tra le colonne venivano riempiti con dei mattoni,
poi
tolti al termine del processo costruttivo, rendendo così
possibile il loro
trasporto su tronchi di legno (tolti usando le leve ed il metodo dei
sacchi di
juta pieni di sabbia). Una volta che questi erano posizionati, veniva
messa la
soletta con un processo analogo al precedente, escludendone la parte in
cui
venivano aggiunti mattoni che qui non è presente.
Le statue uscivano dalla cava
ancora squadrate e le figure venivano ricavate, una volta che il blocco
era
stato messo nella sua posizione definitiva, per sottrazione di
materiale. Per
il trasporto era necessario agire contemporaneamente ed in eguale
misura sia
sulla slitta che sulla pietra: perciò la statua veniva legata
alla slitta per
mezzo di più corde che venivano utilizzate per il traino in modo
che i due
elementi agissero come un corpo unico.
Quasi tutte le superfici vengono
lavorate ma, se in altre culture troviamo frequentemente alto e
bassorilievo,
nell’arte egizia le figure vengono spesso scavate, tolte dalla pietra e
risultano visibili grazie all’illuminazione del sole che crea
particolari
giochi di luci ed ombre, definendone marcatamente il contorno.
Tuttavia,
andando avanti nel tempo, la pittura assume un ruolo sempre più
diffuso ed
importante rispetto alla tecnica precedentemente descritta, definita
con il
nome di rilievo inciso. La tecnica pittorica consiste nella
miscelazione di
pigmenti ricavati dalla macinazione, ad esempio, di terre colorate con
aggiunta
di una sostanza collosa a base di acqua, lattice di gomma e albume
d’uovo; il
colore così ottenuto veniva disteso per mezzo di pennelli
ottenuti da fibre di
palma. Questo tipo di pittura viene definito a tempera (dal verbo
latino
temperare che significa mescolare) ed, essendo solubile in acqua, deve
obbligatoriamente svilupparsi in ambienti chiusi.
Il tempio egiziano è tipicamente
formato dal pilone, dal cortile porticato, dalla sala ipostila e dal
santuario/sacrario. L’importanza rivestita dal Nilo in queste
costruzioni è
verificabile dall’asse longitudinale dell’edificio che, diretta verso
il
sacrario, è parallela al corso del fiume. Il tempio è
destinato a sacerdoti e
faraoni ed il popolo, presente all’esterno dell’edificio, non
può
accedervi,perciò il pilone diventa
il
riferimento di qualche cosa di sacro e non conosciuto presente
all’interno. La
forma del pilone è definibile come due parallelepipedi collegati
tra loro nella
parte superiore da un architrave ed è una porta di accesso che
viene annunciata
da due alti obelischi che lo precedono.
Lo spigolo laterale dell’edificio
è inclinato e la superficie non ha lo spigolo vivo come le
piramidi, ma ha una
sporgenza, detta toro, che proietta ombra e definisce l’edificio
plasticamente.
In queste strutture ci sono grandi pesi ma la ragione per cui noi oggi
li
vediamo così degradati è da attribuirsi ai terremoti che
ci sono stati negli
anni.
Abbiamo prima detto che gli spazi
di ingresso erano annunciati dagli obelischi, ma è importante
aggiungere
chequesti erano posti al termine di
una lunga successione unitaria di statue: l’accesso al tempio di Amon a
Karnak
infatti avviene dalla cosiddetta “Via degli Dei”, un lungo viale
fiancheggiato
da 20 imponenti sfingi (elemento mitologico con corpo di leone e testa
di uomo
o, come in questo caso, di ariete). Tali sculture avevano sotto la
testa di ariete
la figura del faraone: ciò ne simboleggia contemporaneamente sia
la protezione
(della sfinge nei confronti del faraone) sia il farne parte: ariete
è dio in
cielo, il faraone in terra.
Durante la fase costruttiva, come
abbiamo già visto prima, veniva utilizzata una rampa che alla
fine veniva
smontata; queste costruzioni sono assemblate senza l’uso di materiali
collanti
(malta,…) ma il peso di ogni componente e quindi l’attrito tra di essi
è tale
che l’intera struttura non risente dell’azione dello scultore che
intaglia la
pietra già nella sua posizione definitiva. L’attività
degli scultori e dei
pittori è inoltre tale che tutta la costruzione diventa come un
“libro”,
scritto attraverso immagini e simboli, che può essere letto. Il
capitello, ad
esempio, viene ad essere contemporaneamente sia un elemento decorativo
che
costruttivo: decorativo perché è ricco di immagini e
simboli che “raccontano”;
costruttivo perché riducela
probabilità di rottura del capitello poiché diminuisce la
luce libera, ovvero
la parte dell’architrave che non poggia su nulla (in quest’ottica di
aumentare
la resistenza dell’edificio diminuendo la luce libera dell’edificio,
questa
arriva ad assumere dimensioni di anche soli 20 cm.
Da quanto appena detto si evince
chiaramente che la parte più debole dell’edificio è
l’architrave: come già
accennato a proposito delle rampe, infatti, la pietra è un
materiale che
funziona molto bene solo a compressione, perciò si doveva porre
particolare
attenzione per ridurre al massimo le probabilità di rottura
degli architravi.
Tale componente infatti veniva ruotato di 90° rispetto al piano di
taglio
cosicché il peso avrebbe intercettato le fibre, disposte
parallelamente tra
loro, in modo da evitare che queste si allontanino provocando la
rottura del blocco.
Sebbene ci sia una tendenza a
ridurre le dimensioni del capitello trovando materiali più
resistenti in modo
da aumentare la superficie libera, lo spazio vuoto è, rispetto
alle dimensioni
dell’edificio, estremamente ridotto e la persona che va al suo interno
non
riesce a percepirne la sua forma definita se non visitandola
interamente.
Nella parte esterna superiore
dell’edificio vi è un cornicione che è stato spesso
ripreso in altri tipi di
architetture, anche moderne.
Il tempio di Hatschepsut, prima
sovrana che la storia antica ricordi, posto sotto ad una parete a
strapiombo,
si sviluppa su più piani e la rampa costruttiva non viene
smantellata ma anzi
riadattata per il ruolo di “scala monumentale”. La sensazione che
questo
edificio dà è, oltre che di grande maestosità, di
estrema continuità: i pilastri
sono perfettamente allineati con gli architravi andando così a
formare un’unica
superficie liscia.
Altri templi hanno poi la
caratteristica (diversamente da quello di Karnak di cui abbiamo
già parlato e
del suo simile di Luxor, di grande perfezione stilistica) di essere
stati
scavati nella roccia: è il caso di quello di Amon ad Abu Simbel,
celebre per
essere stato spostato, nel 1966, ad una quota superiore e di quello di
Hator,
sempre ad Abu Simbel. Nel caso del tempio di Amon il portale esterno
è presidiato
da due imponenti coppie laterali di statue scolpite direttamente nella
montagna
che rappresentano Ramses II seduto al trono. Il tempio di Hator
è molto più
piccolo del precedente ed, esternamente, è decorato da 6 statue
dell’altezza di
circa 10 metri, due delle quali rappresentano Nefertari (la prediletta
tra le
sue 5 spose), mentre le altre 4 Ramses II.